Cosa può insegnare la fotografia oggi

La fotografia è un mezzo di espressione artistica visiva.

Il mondo delle immagini è molto importante per l’essere umano: dà un accesso diretto al nostro mondo interiore.

Regione Sudafricana del Cederberg, ca 25000 anni fa

Infatti abbiamo imparato a disegnare prima che a scrivere. I nostri antenati hanno imparato a raccontare nelle caverne le loro storie con figure che, arrivando fino a noi, si sono trasformate in leggende.

I bambini imparano a riconoscere i volti e il mondo circostante, prima di parlare. Le immagini sono un canale comunicativo universale. La diffusione degli smartphone ha reso la fotografia una forma espressiva alla portata di tutti.

Questo da un lato ci ha portato a una iper produzione, dall’altro può essere proprio la via per recuperare alcuni concetti a mio parere fondamentali per una sana relazione con se stessi e con gli altri.

Un corretto studio delle immagini può infatti dirci molto di noi.

Uno degli aspetti a mio avviso più interessanti è ad esempio

Lo studio delle luci e delle ombre.

Solo grazie alle ultime la figura acquisisce la tridimensionalità. E soltanto attraverso l’equilibrio tra i due elementi le immagini acquisiscono una fisionomia interessante. Ugualmente l’essere umano ha aspetti più limpidi e altri più oscuri, che spesso e volentieri rifiuta in se stesso, innescando un pericoloso meccanismo di proiezione sugli altri, o di autolesionismo verso se stesso.

Casotto di Ulisse, Bosco incantato, Riserva della Val Sarmassa

Contestualizzando le ombre e attribuendo loro il giusto valore si può imparare a far emergere i propri lati bui, guardarli in faccia, e attribuire loro un posto, che anziché essere relegato nell’ombra, possa rendere la nostra luce piena, ricca e, sostanzialmente, bella. Di quella bellezza profonda, non fatta di estetica, passeggera ed effimera. Di quella bellezza fatta di esperienza, introspezione, accettazione e riflessione.

Un altro aspetto collegato allo studio delle luci e delle ombre in fotografia e nel mondo delle immagini in generale è quello relativo a come la luce filtra dall’ombra. Avete presente quando siete in un bosco, e vedete i raggi del sole attraverso le folte fronde? Ecco!

Lungo il percorso dei nidi, Cantina di Vinchio e Vaglio, Riserva della Valsarmassa

Anche attraverso i più bui anfratti filtra un raggio di luce, a dare speranza. Basta soltanto guardarlo e lasciarsi guidare. Persino per riflesso, se pensiamo alla luce che promana dalla luna.

Un ulteriore insegnamento che il mondo visivo ci può offrire, e io personalmente vi tengo moltissimo, è

Accettare le diversità.

Ognuno di noi è unico” non è un semplice modo di dire. Gli studi sulla genetica hanno dimostrato che non c’è un essere umano uguale ad un altro grazie all’unicità del DNA, o pensiamo anche soltanto all’iride o alle impronte digitali. E dal punto di vista visivo? Lo sapevate che se mettete persone diverse di fronte allo stesso oggetto nessuna di esse fotograferà la stessa cosa? Perchè? Perchè l’elaborazione visiva che ne fanno è differente.

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L’impulso visivo passa al cervello tramite i neurotrasmettitori, che elaborano un’immagine, influenzata anche delle nostre memorie emotive e genetiche, dalla nostra storia, insomma.

E quindi io mi chiedo: perchè se non vediamo nello stesso modo gli oggetti, o ciò che ci circonda più in generale, non riusciamo ad accettare che possiamo non avere la stessa opinione, le stesse influenze, gli stessi orientamenti? Sono argomenti su cui dobbiamo iniziare a riflettere.

E chi si occupa di arte visiva secondo me oggi, forse più che in altri momenti storici, ha il dovere di sfruttare le proprie competenze al servizio di questa necessità sociale, ripeto, soprattutto dopo quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni, anni in cui l’insoddisfazione e le relazioni sociali sono state messe a dura prova.

Guardare il mondo con gli occhi di un bambino

Nascita di una madre

Il racconto delle mie emozioni di mamma racchiuse in un’immagine

L’articolo di oggi è dedicato a

Federico, la mia principale fonte di ispirazione.

Può sembrare un’affermazione da mamma intenerita (per non dire di peggio), ma non è così.

Posso dire che il percorso verso la scoperta di me è iniziato realmente quando è nato lui.

Non sono mai stata di quelle madri che ha detto al mondo che era tutto bello, meraviglioso, favoloso, che pubblicava continuamente foto sui social, a dimostrare quanto era orgogliosa e felice dell’essere diventata madre.

Assolutamente no.

Forse la cosa più difficile per me è stata affrontare la realtà che

il “mio tempo” non era più il mio, era il suo, e i miei ritmi li dettava lui.

Lo spazio per “decantare”, per fare “silenzio dentro” quando mi serviva, è improvvisamente svanito.

E tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine.

Tutte le difficoltà non affrontate mi hanno inondata come in uno tsunami.

Fino a quel momento la mia testa (il pensiero razionale) è stata spesso disconnessa dalla “pancia”, modo colloquiale per definire le emozioni profonde, le intuizioni, l’istinto.

Immaginate quindi come possa essere stato devastante iniziare a sentire tutto con la “pancia”, dopo anni che ti sei abituato a essere molto cerebrale.

Perchè

NON È VERO CHE I BAMBINI NON PARLANO

parlano molto di più di noi adulti….ma comunicano con un canale che noi facciamo in fretta a dimenticare quando cresciamo, o almeno, io me lo ero completamente dimenticato.

Federico mi “parlava”, incessantemente, mi provocava emozioni fortissime, e io non sapevo assolutamente come gestirle, perché non ero, appunto, abituata a fare un ponte tra la testa e le sensazioni più profonde…

Quindi, quando è nato, io

non sono “nata” subito come madre,

passaggio di maturazione nel ruolo materno, che non necessariamente coincide con la nascita del figlio….non potevo diventarlo in quel momento …dovevo prima di tutto diventare “grande”…affrontare le mie emozioni, connettermi con il mio io più profondo, sperimentare esattamente come una bambina questo nuovo coacervo di sensazioni…e compiere quella parte che non avevo concluso quando era tempo.

Non è stato semplice, non solo per me, anche per chi mi stava accanto, ovviamente.

E’ stato un percorso duro, e ho dovuto cercare aiuto esterno, perché da sola non sapevo in che direzione andare.

Non sapevo riconoscere quella parte di me che veniva fuori prepotentemente e quindi non sapevo come canalizzarla.

E’ un percorso in continuo divenire.

Infatti la porta sulla nostra anima rischia di socchiudersi costantemente, sottoposta al peso degli input esterni, dei retaggi sociali, e delle convenzioni con cui dobbiamo quotidianamente cercare compromessi.

E dobbiamo ricordarci di controllarla ogni giorno, come una buona abitudine.

Ma riconnettendomi con le mie sensazioni più istintive, è tornata a bussare alla mia porta la mia parte più creativa, quella artistica, in grado di cogliere aspetti del mondo, e trasmetterli.

Perchè

Quando diventiamo un tutt’uno con la nostra anima

riusciamo a sentire cose mai sentite, a osservare particolari mai notati, a proiettare nel mondo la nostra visione, e, si spera, portare un po’di luce e influenzare positivamente l’ambiente circostante.

Mio figlio mi ha insegnato

L’EMPATIA

e credo che oggi, più di prima, sia una tra le doti più importanti per l’essere umano.

Ogni giorno cerco di imparare da lui, dalla sua spontaneità, da come riesce a esprimere indistintamente ogni tipo di emozione, anche quelle negative, che noi adulti cerchiamo sempre di reprimere.

Cerco di farlo parlare con il mio

“bambino interiore”,

di fargli ricordare come si fa a stupirsi per ogni cosa, a cercare la meraviglia nel mondo, questo mondo che ci sembra spesso così brutto, e che invece riserva sorprese dietro ogni piccolo atomo, e che probabilmente non riusciamo a salvare perché non riusciamo più a vedere dentro di noi in primis cosa esiste di bello, e quanto sia totalizzante sentirsi tutt’uno con l’Universo.

Questo è ciò che ogni giorno mi fa ritrovare lo spirito creativo, che mi porta a scrivere, a fotografare, a comunicare.

Mi piacerebbe che tutti ritrovassero il modo di entrare in contatto con la parte più recondita di sé, e potessero provare

l’amore che nasce da dentro e si espande come un’energia positiva.

La comunicazione sarebbe certamente migliore, specchio di una ritrovata consapevolezza, e sarebbe più costruttiva.

Provare emozioni non riconosciute, non elaborarle, o peggio, elaborarle con un rifiuto perché classificate come negative, porta a sentimenti di paura, odio, invidia, e provocano

instabilità.

Ogni giorno dobbiamo imparare dai bambini.

Per loro già nascere è una lotta, esplorare il mondo è più faticoso di ogni lavoro, ma guardano avanti con speranza e fiducia, sono spontanei, ma sopra ogni cosa, sono pieni di “cuore”.

QUANDO DIVENTIAMO GLI ADULTI CHE SIAMO?

Se avete voglia di leggere qualcosa sulle emozioni…

  • D. Goleman, Intelligenza emotiva, BUR, 1995
  • D. Stern, Nascita di una madre, come l’esperienza della maternità cambia una donna (con Nadia Bruschweiler Stern e Alison Freeland), Mondadori, 1998
  • T. Hogg e M. Blau, Il linguaggio segreto dei neonati, 2001
  • Krishnananda e Amana, Uscire dalla paura, Universale economica Feltrinelli, 2014
  • Cheri Huber, Il dono della depressione, Mondadori, 2006

Fotografare con intelligenza emotiva

Manifesto per una fotografia maieutica

La fotografia come strumento introspettivo

In un giorno di luglio del 2021 ho preso coscienza che in uno scatto viene racchiuso un Universo, e che il mio approccio alla fotografia è sempre stato diverso da quello di qualunque altro fotografo.

Ho sempre considerato la fotografia come una forma d’arte con grandi potenzialità.
In particolare l’ho sempre affrontata con introspezione. Il rapporto con l’ambiente circostante, lo studiare le ambientazioni, il “sentire” quello che si fotografa, è un’attività meditativa che porta a entrare in contatto con la parte più profonda di sè.
Scattare una foto non è soltanto un semplice click.

Dentro uno scatto vengono racchiuse moltissime storie, in un flusso emotivo circolare, tra ciò che abbiamo dentro e gli influssi esterni. In una foto viene impressa la storia di chi la fa, l’interpretazione di chi la guarda, e si aumenta di complessità se vi è anche un soggetto fotografato. A quel punto le storie che si incrociano sono quella del fotografo, quella del soggetto, quella che il fotografo legge nel soggetto, e la successiva interpretazione che ne viene data dal soggetto fotografato.

Ecco che lo scatto non è un punto di arrivo, ma un momento di grande potenzialità per un percorso di consapevolezza e trasformazione, in quanto la sessione fotografica diventa un momento maieutico e catartico.

E da qui il nome che ho voluto assegnargli: soulography (crasi tra soul e photography).

La montagna e lo spirito

“Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male”.

cit. Renato Casarotto

Il mio rapporto con la montagna: poliedrico, di rispetto, di riconoscenza.

Quando vado in montagna il mio spirito si acquieta. Sono un tipo di persona contemplativo, che nell’attività fisica e nello sport non trova sfogo positivo, anzi ottiene il risultato opposto: maggiore concitazione e maggiore tensione.

Nel fare fatica in montagna invece trovo la pace. Il cammino è quasi una catarsi, dove lascio a mano a mano a ogni passo le tensioni, i dubbi, le paure, e conquisto sicurezza, consapevolezza di me, introspezione, infine:

La quiete.

La montagna mi piace “in solitudine”. Non è fatta di competizione, ma di ricerca.

Mi piace assaporare ad ogni passo le piccole particelle di me che si staccano e si diffondono nella natura circostante, per poi ritornare a me “epurate” e rigenerate, a donarmi un senso di appartenenza al tutto.

Le montagne, antiche, granitiche, sono di grande insegnamento.

Come tutti i grandi fenomeni della natura ti ricordano che sei un granellino, che devi rispettare l’ambiente, devi rispettare tanta “potenza”, le montagne c’erano prima di te e ci saranno anche dopo di te.

Le montagne sono sapienti.

Le montagne ti accolgono.

Le approcci con il cuore pesante e le lasci con lo spirito pieno.

Si può camminare meditando. Uno dei segreti per terminare un percorso è imparare ad ascoltare molto bene il proprio corpo. Quando il battito cardiaco aumenta rallentare, quando il battito si tranquillizza provare a intensificare. Concentrarsi sul respiro e sulle tensioni muscolari aiuta ad

allontanare tutti quegli input tossici che ci rendono “cerebrali” e di conseguenza disconnessi dal nostro io più profondo.

Guardare il paesaggio, notare ogni sfumatura di verde o ogni piccolo sasso, mi fa assaporare il mondo, mi incute rispetto per il sentiero che sto percorrendo, e gratitudine per la terra che mi sta concedendo di attraversarla.

Così arrivo in cima e colgo

una delle mie due immagini di pace:

le vette, le valli, le ondulazioni e i crepacci a perdita d’occhio. Il silenzio, il vento, il rumore dei piccoli insetti che camminano, e il mio universo che si espande, in ammirazione di tanta bellezza.

Ritorno con una consapevolezza ogni volta rinnovata:

un sentiero può essere accogliente, morbido, rassicurante come in un bosco, o aspro, duro e implacabile come su una pietraia….

ma un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, si arriva alla meta, certi che è stato il cercare di arrivare alla meta che ci ha fatti crescere, riconnettere, e ritrovare, e non tanto l’arrivare fine a se stesso.